Friday, May 29, 2009
Reprint: Marc Quinn: Young British “Still Art” a Roma
Marc Quinn: Young British “Still Art” a Roma
Autore: Ilari Valbonesi
data: 07.07.2006
Nella seconda metà degli anni '80, a Londra imperava l’estasi chimica, la house music in tutte le sue modulazioni, il cotone di Katrin Hamnett e l’aquila di Boy. Occasionalmente ci si poteva imbattere in quadretti di fiori, sculture reclinate di Henry Moore o capolavori alla National Gallery. Molti “Scratch and Scrapes books”. Qualche Young Artists, una radiografia di Rembrandt: Art in Making. Altrimenti c’era il Victoria and Albert Museum, il British o la Hall centrale del Natural History (quella con la carcassa gigante), snooker nei pubs o vela a Brighton. Ancora un Christmas pudding flambè e un tea time da un “relative” vestito di tweed con una collezione di farfalle, qualche testa di cinghiale e delle porcellane dipinte a mano. Con una Rosa webbiana trapiantata nel giardino dopo un viaggio nell’Himalaia occidentale. E un cuscino di cinz di William Morris. British Still life comincia qui. In qualche casa tappezzata da qualche parte dell’Inghilterra. Per approdare nella Galleria Alessandra Bonomo oppure nelle sale Museo d’Arte Contemporanea di Roma. Se invece passate per Londra Marc Quinn è in Trafalgar Square.
Scolpita a Pietrasanta da un blocco di marmo di Carrara e installata il 15 settembre 2005 sul quarto “plinto” di Trafalgar Square, “Alison Lapper” è la spiazzante scultura di Marc Quinn, che ritrae l’omonima artista incinta di otto mesi e mezzo. Pesa 13 tonnellate e si staglia per 3,55 metri. La scelta simbolica dello spazio pubblico di Trafalgar condensa le direzioni del lavoro critico di Marc Quinn: il significante “donna” esposto nella pubblica piazza s’inscrive nella cultura inglese come un evento pregno di possibilità e “trait d’union” riflessivo tra pubblico e privato. Come nota l’artista: “Nelson, simbolo del colonialismo britannico, ha perso un braccio”. Perché il reale movimento della coscienza del proprio corpo è di altra natura. È un dinamismo relazionale la cui materia è già etica. Una generazione prima, Henry Moore sottolineò che un buco può avere un significato formale quanto una massa. La Young British Art articola la plasticità a raggiera per rintracciarne la genesi interna.
La prima retrospettiva romana di Marc Quinn esordisce al MACRO di Roma con una stanza di dark rabbits. Una serie di calchi prototipici di carcasse di coniglio. In bronzo patinato nero. “Cybernetically engineered clone rabbit”. Conigli sventrati, scannerizzati, clonati in digitale e ricomposti in varie misure e posizioni: reclinati, spesso eretti, scavati dall’interno. Nel corpo incavato si custodisce la vita sospesa come un fossile. Sono bellezze interne, combuste, patinate, in quiete. Forme che ritengono una vivida dignità nelle pieghe misurate della carcassa. Genealogia delle forme. Iniziata con “Self” , l’autoritratto del 1991, plasmato di sangue proprio e tenuto in vita da una speciale teca frigo (e liquefatto nel 2002 quando un operaio ha staccato accidentalmente il filo della corrente), la sua personalissima ricerca morfologica prosegue con i lavori che l’artista inglese ha dedicato alle orchidee e al girasole. Nelle teche, la singolarità del vivente viene tenuta sotto osservazione e rintracciata come prima forma, dove la scala non è fissata una volta per tutte. Forma generativa dunque che ha il duplice intento di conservarsi trasgredendo la misura e l’ambiente. Forma biologica che si colloca in un clima artificiale per dare vita a stati trasgressivi del corpo messo al mondo. “Transorganica” direi generata nei punti di fusione. Come in “Emotional Detox: The Seven Deadly Sins”, sette calchi del corpo di Marc Quinn, sempre patinati di nero, oppure “6 breads hands” del 1996 dove lo scultore panifica le sue mani e poi le calca in bronzo. Dalla fine degli anni novanta Marc Quinn incontra il marmo italiano. La scelta di un materiale classico opera uno slittamento semantico: la trasgressione della forma viene esplicitata come relazione sintetica della parte con l’intero. La scelta della materia celebra così l’antica compostezza del corpo greco.
Composti come in un Antiquarium, i due lavori esposti al Macro che appartengono alla serie “The Complete Marbles”: Alexandra Westmoquette (2000) e Peter Hull (1999). La mancanza dell’arto viene ignorata dalla percezione del corpo in quiete. La sintesi materiale in direzione etica è rafforzata ulteriormente dalla sala dove è esposta la serie di sculture intitolata “Chemical Life Support” . I supporti chimici, liquidi e polverosi sono alla base di “Innoscience” (2004), la scultura del figlio mischiata di latte artificiale con cui è stato nutrito e di “Nicholas Grogan - Insulin (Diabetes)” (2005). Entrambi riportano all’orizzonte la sintesi materiale costitutiva della forma, manifesta nella passività del corpo che subisce la malattia, sintesi che Marc Quinn radicalizza fino a penetrare con Sky (2005) dentro l’utero della moglie e celebrare con la scultura di sangue e placenta, il taglio del cordone ombelicale e la generazione del suo secondo figlio. L’integrità dell’opera si genera come “sintesi passiva” che viene ricercata e sperimentata in tutte le sue forme e sempre attraverso corpi fioriti, sontuosi, vividi, aperti. Anche là dove l’arto è presente, come nelle sculture che ritraggono l’esubero della bellezza di Kate Moss, articolata in diverse posizioni. Il corpo è un gomitolo eccentrico. La dignità è invece il mistero.
Una bellezza dell’intero che si trattiene anche nel caso di “Waiting for God”, e di “Waiting for Godot”. L’essere umano è posto di fronte alla sua carcassa inginocchiata e in atto di preghiera. In umile attesa di tornare polvere. Sempre a rischio di estinzione per poi essere esposto in un museo. Brivido di eternità nelle ordinate caselle di “DNA Garden”, il bellissimo lavoro che ricompone nei pannelli di gelatina agar, 77 profili di DNA per un paradiso artificiale: una donna, un uomo e 75 piante. Tassonomia genetica, arca del “Self” e rispecchiamento di tutte le forme. Sintesi suprema dell’arte generativa di Marc Quinn, che segna la maturazione di fondo della ricerca contemplativa di un’etica comune ai corpi. Chiasmo del corpo in quanto etica. “Etymology of Morphology” è infatti il titolo dell’opera recentemente acquistata dalla Tate Gallery. Prestigiosa anche la sua collaborazione con la fondazione “Wellcome Trust” per il primo ritratto genomico “DNA di Sir John Sulston” premio nobel e pionere del progetto genoma “blue print”. Commissionato dalla National Portrait Gallery, Marc Quinn ha realizzato questo “ritratto concettuale” con il DNA di Sir John frammentato in segmenti e replicato con batteri immersi in traslucida gelatina. Icona dell’intera trasparenza corporea e traccia genetico barocca che in ogni momento può (essere fatta) esplodere. Come nella conturbante serie patinata di torsi di classico “Pop Corn”. Pop up della vita anche nei “blow up” di un giardino invernale di fiori inglesi, quasi ikebana per una cerimonia del tè, o semplicemente negli acquarelli, esibiti in entrambe le mostre romane, che sciolgono le forme nella trasparenza. Il volto assorbe la frequenza del vitale, il vaso la contiene e la macchia diventa opportunità.
http://www.teknemedia.net/magazine/dettail.html?mId=1366